di Francesco Bucchini*
Secondo quella che LMA Viola definisce come Formulazione Noumenica Rituale Tradizionale, l’ Essere si dispiega plasticamente, attraverso i cicli del tempo, nel mondo, il quale ne rappresenta l’ abbellimento e l’ attualizzazione di ogni potenzialità, di ogni idea divina. Il mondo è pervaso dall’energia, percepibile, di un unico principio divino, di un Numen che può essere diversamente nominato, mentalmente distinto e discriminato per qualità e funzioni.
La “numinosità” inoltre si esprime attraverso ierofanie e cratofanie, cioè manifestazioni del sacro e della potenza divina in modo non omogeneo, discontinuo, nei luoghi, negli animali, nelle persone, nel tempo.
La numinosità è l’ espressione percepibile degli Dei, Mente Divina, che è atemporale in sé, ma che nella sua discesa fa sì che l’Anima, intermediaria tra spirito e corpo, senta il Tempus, analogamente al Mundus, come circolare , ripetitivo, ciclico.
Cicliche sono le Ere, ciclico è l’Annus, come il Mensis, il Dies, le Horae…ogni istante è in realtà pervaso dalla sacralità di Janus, perenne inizio e fine, espansione e contrazione, natura olografica dell’universo.
Il tempo lineare appartiene piuttosto nel suo succedersi di eventi, alla fisicità, ai corpi; non all’Anima del Mondo che perpetuamente e ciclicamente attua le immagini delle idee, degli Archetipi divini, in un movimento a spirale a volte centripeto a volte centrifugo rispetto all’Asse centrale lungo il quale discende-ascende lo Spirito divino.
Questa alternanza di processione e conversione è dovuta, nel corso delle Età, degli Yuga, alla diversa qualità ed intensità dei logoi o principi, regole, energie divine percepibili corporeamente, animicamente ( noi della TEV diremmo Raggi, diremmo Elementi?) attraverso i quali , la mente divina, gli dei, il Sovramondo si fa azione, si attualizza nel mondo.
Nell’Età del Ferro, Kali Yuga, la tendenza sempre maggiore all’identificazione dell’anima con il corpo porta alla percezione del tempo come lineare, fatto di attimi che si succedono irreversibilmente e senza connessione; la perdita di senso che ne deriva, porta altresì all’ emergere di tutto ciò che è basso, caotico o ahrimanico.
Il re di tradizione iperborea, il sacerdote, l’ augure sono coloro che tengono stabile la connessione con il divino e che tramite il rito e la sua ripetizione ritmica ridanno senso e sacralità al Tempus; attraverso la teurgia, affiancando il templum al fanum( fonte, bosco, luogo sacro dove il Numen spontaneamente si manifesta) contribuiscono al radicamento del divino nel mondo, alla “spiritualizzazione” della natura; sono nello stesso tempo tramiti e cocreatori, partecipi della natura divina.
Se l’ Età dell’ Oro iperborea, con la discesa delle popolazioni ariane dalle aree circumpolari tradizionali, viene ripetuta nel Latium Vetus e poi ancora restaurata nel periodo augusteo, ben si può comprendere come per i romani l’ uomo, il Vir, sia tutt’ altro che semplicemente e passivamente soggetto alle evoluzioni ed involuzioni cicliche dell universo, sacra rappresentazione delle Potenzialità Divine nel mondo, Divina Commedia, diceva Dante; l’ uomo può, al di là delle illusorie percezioni dell’ Anima Mundi e attraverso la forza dell’ intentus, della volontà, ricercare e ripristinare il collegamento con il centro dell’Essere.
Noi abbiamo le nostre modalità per tentare di conseguire gli stessi obiettivi. Meditiamo, stimoliamo l’ espansione dei canali celeste e tellurico, aprendo i CEC, le porte( janua) della nostra anima che ci mettono in contatto con i piani divini e ci caricano del vitale Oro sottile della risonanza, che di lì proviene. Tutto ciò comunque richiede una certa quantità di intentus e, in qualche modo, di spersonalizzazione, che si ottiene grazie ad un allenamento costante.
E’ rito che, in sè, ci accosta al sacro, al silenzio profondo che sentiamo instaurarsi dentro di noi quando siamo veramente interni e concentrati nelle nostre pratiche.
La civiltà rituale italico-romana, così fortemente simbolica, analogica e ben più di noi permeata dalla forza delle forme archetipiche, utilizzava altri metodi, altri linguaggi; in lei il puro utilizzo del simbolo può condurre con naturalezza a vivere altre modalità dell’ essere.
I giovani italici del Ver Sacrum, primavera sacra, lasciavano le comunità di origine dopo essere stati dedicati al dio Marte, maschi e femmine con il capo coperto da un velo; anche i sacerdoti si accostavano ai sacrifici “capite velato”. Non ci troviamo qui, come purtroppo è tipico delle nostre culture, di fronte ad un segno della sottomissione e dell’ impurità del femminile, al velo come schermo o protezione dal desiderio maschile; qui il significato sta nell’ occultamento e nella rinuncia alla propria identità inferiore, al proprio ego, ostacolo alla piena adesione e comunicazione con il divino. Per lo stesso motivo è bene non accostarsi alla preghiera e agli Dei con animo turbato, troppo coinvolto nelle vicende di una identità illusoria, terrena. Un’ altra, curiosa, prescrizione sacerdotale era quella di non poter avere rapporti con la moglie, la notte prima di un sacrificio. Bigotteria? Sessuofobia. Non penso. Necessità di non essere coinvolti in processi emozionali che coinvolgono le sfere inferiori, corporee?
C’ è un altro aspetto che va a mio parere considerato, e riguarda l’ energia oro, abbondantemente impiegata al culmine dell’ atto sessuale; senza essere carichi di Oro sottile, non c’è risonanza, non c’ è possibile accesso al divino.
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Lodevole…come sempre!!!
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Francesco mi hai definitivamente conquistata! Grazie Grande Condottiero…
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